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'Furore' di John Steinbeck

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La Grande Depressione, la fame, la povertà: sono i tempi duri, quelli della crisi del ’29 negli Stati Uniti. Sono tempi di ristrettezze economiche forse anche peggiori di quelli che stiamo attraversando, ma per certi versi non del tutto dissimili, quelli in cui è ambientato il romanzo di John Steinbeck.
Questo è lo sfondo sul quale si evolvono le vicende di Furore, opera pubblicata per la prima volta nel 1939, il cui titolo originale, The Grapes Of Wrath (I grappoli dell’ira) evoca in maniera più decisa la terribile storia dei contadini costretti ad abbandonare la Dust Bowl, la regione al centro degli Usa che nel 1930 fu colpita da una spietata siccità.
Quello di Furore Ã¨, dunque, il racconto degli Okies che, complice la Grande Depressione, furono costretti ad emigrare verso la California con la speranza, e forse l’illusione, di poter scappare dalla miseria, dalla fame, da quella siccità e da quella desolazione polverosa delle campagne abbandonate.
È la storia dei vinti, di un’America contadina e proletaria esclusa dai meccanismi del capitalismo, impotente nei confronti delle operazioni che le banche esercitano sulla sua esistenza.

Ancora, Furore è una storia di emigrazione, di un lungo viaggio che, lungo la Highway 66, attraversa gli States, ma che potrebbe somigliare a tutti i viaggi di migranti - interminabili e pieni di avversità, carichi di rancore e di nostalgia - che si mettono in cammino alla ricerca di pane e di lavoro verso una terra promessa che, quasi come sempre, si rivela meno ricca di opportunità di quanto si pensi.
Ed è attraverso la storia della famiglia Joad che Steinbeck ci racconta un paese dalle mille contraddizioni: da un lato la possibilità o il sogno di arricchirsi, rappresentato dalla California, dall’altro la triste miseria e la grande difficoltà per le classi più povere di riscattarsi.

La narrazione di Steinbeck è minuziosa, realista e allo stesso tempo incalzante, quasi cinematografica, oltre ad essere fortemente evocativa.
È una vera e propria odissea, ma senza possibilità di riscatto e priva di un lieto fine.
È una fotografia della dura realtà, senza sconti, cruda come le foto della Dorothea Lange che, negli stessi anni, documentava il fenomeno migratorio negli Stati Uniti attraverso i suoi scatti.
E il culmine della narrazione è tutto racchiuso nel finale, in cui la pietà per il genere umano è pari al sentimento di compassione che potrebbe evocare la Pietà michelangiolesca, ma senza la speranza di una risurrezione.
Quello che resta, è solo un sentimento di profonda impotenza e di una storia che è destinata a ripetersi.

Solo un libro? Forse.
O forse no.
Perché quello di Steinbeck è un lavoro che scavalca i confini della letteratura per entrare di diritto nell’elenco di quelle opere che riescono a raccontare storicamente e sociologicamente le vicende di un popolo durante una determinata epoca.
Non solo. Furore ci apre gli occhi e ci offre uno spunto prezioso per valutare una contemporaneità, caratterizzata da una nuova crisi economica e tuttora segnata da migrazioni disumane, da disagi sociali, da diritti calpestati e da condizioni di lavoro che rievocano la schiavitù.

Dove c’è lavoro per uno, accorrono in cento.
Se quell’uno guadagna trenta cents, io mi contento di venticinque. Se quello ne prende venticinque, io lo faccio per venti.
No, prendete me, io ho fame, posso farlo per quindici.
Io ho bambini, ho bambini che han fame!
Io lavoro per niente; per il solo mantenimento. Li vedeste i miei bambini! Pustole in tutto il corpo, deboli che non stanno in piedi.
Mi lasciate portar via un po’ di frutta, di quella a terra, abbattuta dal vento, e mi date un po’ di carne per fare il brodo ai miei bambini, io non chiedo altro.
E questo, per taluno, è un bene, perché fa calare le paghe rimanendo invariati i prezzi. I grandi proprietari giubilano, e fanno stampare altre migliaia di prospettini di propaganda per attirare altre ondate di straccioni.
E le paghe continuano a calare, e i prezzi restano invariati.
Così tra poco riavremo finalmente la schiavitù.

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