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La pazienza è fiducia accordata, è arte di vivere e di sostenere

Commento al vangelo

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Dopo il terremoto a L’Aquila, un lettore scrive a un giornale: “Un frate cappuccino corre tra le macerie con l’olio degli infermi, a consolare i moribondi. La gente gli chiede: Dio dov’è? Il Padre risponde: Dio è qui, non se n’è andato”. Ma di quale Dio parliamo noi uomini? Del Dio buono dei miracoli o del Dio che non avrebbe l’onnipotenza per fermare il male? Se ferma il tumore di un nostro caro, Dio c’è. Se non ferma il terremoto, Dio non c’è. L’uomo non sa niente di sé, ma parla di Dio, vaneggia di Dio. Auschwitz l’ha fatto l’uomo, nel pieno della propria libertà. È uno strano essere l’uomo.

Prima di chiederci se c’è Dio, dovremmo chiederci: e l’uomo? C’è l’uomo?”. Sono gli eterni interrogativi dell’uomo: “C’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte che malgrado ogni progresso continuano a sussistere?” (GS, 10). Davanti agli episodi citati da Gesù nel Vangelo, come davanti alle tragedie delle guerre, dei terremoti, delle morti assurde, la fede è stretta in un dilemma: o Dio può impedire il male, e allora non è buono, perché non lo impedisce; o Dio non può impedire il male, e allora non è onnipotente. Così siamo autorizzati a negare che Dio esiste. Diceva un saggio ebreo: “Hai fede? Allora non ci sono domande. Non ce l’hai? Allora non ci sono risposte” (Yagoc di Razmin). Davanti alla disperazione e al dolore, dovremmo ripetere le parole del Salmo: “Benedici il Signore anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici.

Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie; salava dalla fossa la tua vita, di corona di grazia e di misericordia” (Sal 103,1-4). Davanti al dolore dovremmo meditare le parole di Giobbe: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore” (Gb 1,21); “Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?” (Gb 2,10). Davanti alla disperazione chiediamoci, piuttosto che giudicare Dio, quali frutti portiamo con la nostra vita? Dio e gli altri si aspettano qualcosa da noi; e noi come rispondiamo? Siamo come il fico sterile, o valorizziamo la nostra vita?

Riflettiamo su quanto ci dice l’Apostolo: “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” (1Cor 10,12). Impegniamoci a fare opere di bene. Un proverbio recita: “Passa il tempo e morte viene, fortunato chi fa il bene”. L’ora di fare il bene è subito! Eventi tragici dell’attualità sono assunti da Gesù come invito alla conversione e al rischio di divenire occasione per giudicare gli altri: questo è ottenuto inserendo la storia quotidiana in quella della salvezza, anzi cogliendola come storia guidata da Dio, storia che si apre su una dimensione escatologica. La morte minacciata “perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13,5) non è ovviamente riferita alla morte fisica, ma alla prospettiva escatologica. L’insensibilità agli eventi, l’indifferenza alla storia, il rifugiarsi nella pigrizia dell’abitudine, il non lasciarsi scuotere e ferire dalla storia, il restringere i propri orizzonti di interesse solo a ciò che ci tocca direttamente e da vicino, impediscono di accogliere l’appello alla conversione. Anche la parabola del fico ci ricorda che non spetta a me e a te giudicare sulla fecondità o sterilità del fratello, e ancor meno spetta a me e a te estirpare o escludere chi si pensa che non dia frutti.

L’infecondità dell’albero, diviene per il vignaiolo invito a lavorare ancora e ancor di più affinché tutto sia fatto per mettere la pianta in condizione di portare frutto. Alla tentazione della durezza e dell’esclusione, la parabola oppone la fatica raddoppiata dell’amore. L’amore come lavoro, come impegno, come “fare tutto il possibile per”. E comunque il vignaiolo si proibisce di dare un giudizio inappellabile di sterilità sul fico e lascia al padrone della vigna questa difficile decisione: “Se no, tu lo taglierai” (Lc 13,9). Tu, non  io. La metafora narra l’amore e la pazienza di Dio, radicalmente e sempre.

Anche di fronte alle situazioni più “disperate” perciò, lasciamo a Dio il giudizio. La tentazione di giudicare fa peccare d’impazienza, di mancanza di attesa dei tempi degli altri. La pazienza, invece, è fiducia accordata, è arte di vivere e di sostenere l’incompiutezza e l’inadeguatezza che vediamo negli altri, nella storia e che dobbiamo saper vedere in noi stessi.

I nostri tempi non sono quelli degli altri! Nel vignaiolo che dice al padrone: “Lascialo ancora quest’anno” (Lc 13,8) c’è anche la figura dell’intercessore. E intercedere non significa soltanto supplicare Dio per qualcun altro, ma compromettersi, con una grande assunzione di responsabilità, facendo tutto il possibile in prima persona per venire incontro alla situazione della persona per cui si prega. L’intercessione fa unità tra impegno storico e responsabilità da un lato, e fede e preghiera dall’altro. E così non solo chiede l’intervento di Dio nella storia, ma già lo annuncia impegnando l’intercessore nell’azione.
 

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