Comunemente si è portati a pensare che sia il sesso il linguaggio attraverso il quale universalmente esprimiamo un minimo comun denominatore. Al contrario molti studi sottolineano che il modo di eccitarsi e di consumare l’atto varino a seconda della cultura che osserviamo. Ma Il vero linguaggio universale è invece il denaro che nella sua natura proteiforme e mutevole può essere inteso in vari modi: “un rapporto sociale, più precisamente una forma di potere; un mezzo di scambio, la cui caratteristica preminente non è tanto la sua generalità, quanto la capacità di attraversare il tempo e lo spazio; un linguaggio che permette e insieme suggerisce di attribuire una quantità universalmente comparabile a qualsiasi oggetto o processo materiale o immateriale”.[1] Infatti mentre alla visione di un oggetto sconosciuto la nostra sfera cognitiva fatica ad attribuire un nome, difficilmente faticherà ad attribuirgli un costo.È l’Unione Sovietica che rivede questo linguaggio abbassando il livello della sua centralità.
Ora se il 1989 diventa l’anno dell’avvio della Globalizzazione e della società liquida, il denaro dovrà trasformarsi anch’esso in un elemento liquido se vuole continuare ad essere il linguaggio fondante di una società che fa del denaro stesso la sua grammatica, il suo alfabeto. Ecco che pian piano ci si avvia alla scomparsa non solo di tutte le sue forme meta- burocratiche (assegno, vaglia, cambiale) ma anche alla sua tradizionale forma cartacea che è la banconota. Tutti questi strumenti sono oggi dei BIT gassosi, immateriali e totalmente computerizzati a tal punto che se si chiede un prestito da € 50.000 in banca, tale somma viene erogata non materialmente ma attraverso un’operazione di BIT computerizzati. La banca in questione non ha movimentato, nella sua materialità, l’intera cifra ma solo una sua minima parte. Il fatto che il denaro sia diventato liquido, produce, come conseguenza, la sua immaterialità, quindi, la sua non completa controllabilità.
Tale situazione si riflette nella solidità degli ultimi frammenti del Capitalismo industriale. Se tutto viene, come è evidente, dematerializzato nel limbo liquido del libero mercato, tutto ciò che è solido pian piano si desolidifica. Un tempo una fabbrica in crisi sarebbe, in un qualche modo, stata rilanciata (la Fiat ad esempio è stata oggetto di una pluralità di interventi pubblici che sono risultati determinanti). Questo significa che nel passato il lavoro materiale della classe operaia era, anch’esso in vari modi, quasi sempre recuperabile. Oggi davanti ad una fabbrica in crisi, il più delle volte, si procede ad uno spezzettamento. Arriva un soggetto finanziario (di cui parleremo a breve) acquista la fabbrica e la rivende a pezzi ciascuno ad un costo anche superiore a quello iniziale con il quale si è acquistata la totalità della fabbrica stessa. Quindi se prima avevamo il rilancio industriale e quindi un reinvestimento nella forza lavoro, ora il reinvestimento diventa meramente finanziario mutando il suo status in reinvestimento borsistico. Cambia, dunque, il paradigma marxiano. “Il filosofo Claudio Tuozzolo, direttore della “Rivista critica”, ci invita a considerare che la formula D+M+D (denaro, merce, denaro) si è oggi trasformata in D+D+D (denaro, denaro, denaro); in altre parole la merce prodotta dall’acquisto è il denaro stesso.
[…]La merce è sostanzialmente scomparsa e con essa scompare lentamente e inesorabilmente la proprietà privata. Non è chiaramente un superamento della proprietà in modo socialista, ma un’altra forma che lo stesso Marx [aveva] previsto in caso di trionfo del sistema capitalista.”[2] La conseguenza ulteriore è che il lavoro diventa pian piano anch’esso immateriale producendo la perdita di sé, del proprio ruolo nella società e soprattutto la perdita del proprio riferimento di classe.
Tale tesi si avvalora di un ulteriore elemento. Chi è il soggetto che compra questa fabbrica? Chi la spezzetta? Chi compra questi frammenti? Come ci guadagna? Senza addentrarci più di tanto nelle logiche di mercato speculativo (attraverso il quale si scommette con i derivati, si riacquista, si vende ecc..), soffermiamoci ad osservare la struttura di uno di questi soggetti. Prendiamo ad esempio la Lehman Brothers: era formata da ben 2985 entità giuridico- finanziarie diverse. Quando la società di revisione contabile PricewaterCoopers, cominciò ad indagare sui responsabili del fallimento di LB, asserì che per capire il labirinto di debiti e crediti della sola filiale europea (con sede legale a Londra) sarebbero occorsi tre anni ed altri dieci per sistemare le pendenze con i soggetti danneggiati dal fallimento. “Troppo grandi per fallire” era lo slogan rassicurante diffuso al principio di questo nuovo assetto che i protagonisti del Capitalismo post- industriale si erano dati.
Il sociologo Luciano Gallino, invece, coniò uno slogan ben più veritiero: “troppo grandi per essere salvati”. Allora vuol dire che l’uomo ha creato delle invenzioni che retroagiscono nei confronti del creatore. In altri termini si costruisce ciò che poi non può più essere controllato e che anzi sviluppa esso stesso un controllo non solo nei confronti dei popoli, ma anche nei confronti di colui/coloro che avendolo partorito dovrebbero conoscere anche i meccanismi di accensione e spegnimento. Se questi mostri non sono più controllabili dagli uomini, vuol dire che la “dimensione vernacolare” umana perde ogni peso, ogni valore, ogni significato.
Come potrebbero gli uomini ribellarsi materialmente contro ciò che non è materiale? Un tempo ci si è scagliati contro il Palazzo d’Inverno, contro la Bastiglia. Oggi il luogo dello scontro si ramifica (come nel caso di LB) in 2985 entità che hanno sede nei BIT computerizzati. Da un punto di vista psicosociale la perdita del senso di sé è la prima conseguenza. Chi è con me nella lotta? Contro quale sede, soggetto, responsabile, agito le mie bandiere e riverso la mia indignazione? Contro il migrante, contro il pedofilo, contro il marito che ha assassinato sua moglie, contro il conduttore televisivo che guadagna tre milioni di euro l’anno, contro il politico (che ormai, è più che evidente, è l’ultima e quasi ininfluente ruota del carro). Insomma, contro chi si manifesta in carne ed ossa, con una faccia, con un nome, con un Palazzo. Tutte manifestazioni eterodirette rispetto alle quali appare sempre più inopportuno ritenerle come l’esito inaspettato dell’architettura sistemica o le controindicazioni di un determinato corso storico. Sono complessivamente dentro la struttura che viene sorretta da una distrazione di massa, da una deviazione della responsabilità che sono funzionali allo status quo.
Il Movimento 5 stelle ad esempio è l’emblema della funzionalità del sistema che dirige sui politici ogni sciagura quando in realtà essi sono semplicemente i ratificatori di scelte che vengono prese nella nebulosa del potere finanzcapitalista. Dodici famiglie detengono il reddito di tre miliardi e settecento milioni di individui. Tuttavia il pensiero unico che ha egemonizzato le masse si dirige altrove in cerca bersagli più immediati e semplici da scovare, ma del tutto privi delle responsabilità vere e autentiche.
La politica infatti non conta più nulla, non ha più sovranità su lavoro, istruzione, sanità e benessere collettivo. Tutto viene pedissequamente rinviato sugli scranni dell’Unione Europea che prende ordini dalla BCE, dall’FMI e dalla NATO. Siamo in una fase di dittatura alla luce del sole che nega anche la stessa proprietà privata e la libertà d’impresa attraverso quei monoliti colonizzatori che presto arriveranno anche nel nostro territorio a saccheggiare e a schiavizzare persone ed esistenze, a debellare la dimensione vernacolare del lavoro costituito da piccole attività che garantisco il lavoro autentico e non quello generato da un algoritmo.
Entro il 2035 l' 86% dei posti di lavoro nella ristorazione, il 75% di quelli nel commercio al dettaglio e il 59% degli impieghi nell' intrattenimento e cultura scompariranno, assorbiti dalle nuove tecnologie e dalla concentrazione delle multinazionali dell'e-commerce. Andiamo dunque verso la scomparsa della proprietà privata, della libertà d’impresa, dell’azzeramento della consapevolezza e della deviazione della responsabilità vera: quella dei potentati finanzcapitalistici.
Dario Leone
Sociologo
[1] Gallino L., Finanzcapitalismo, la civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2014. P. 169
[2] Leone D., “Il Capitalismo è un’invenzione umana”, La Città futura, Roma, 2016