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Chiusure, aperture, il ballo del lockdown

Cosa è cambiato da marzo a oggi?

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Si fa presto a dire lockdown, ennesimo anglicismo entrato di prepotenza nella breccia della caporetto della lingua italiana. La minestra riscaldata in autunno ne ha pure i colori, dal rosso all’arancione e al giallo. Sottochiave, rispetto alla primavera, ci è finito il buon senso, già da tempo riposto in dispensa, con la prepotente affermazione di nuovi prodotti mediatici da passare nel tritacarne televisivo. Siamo passati dalle grandi abbuffate virtuali dei cuochi in tv alle pillole dei gourmet della scienza, dai fornelli della cucina ai fornelletti dei chimici, dalle previsioni del tempo in senso meteo alle previsioni dei tempi in senso medico, dalle primedonne che fanno gli opinionisti alle opinioni degli specialisti che fanno le primedonne.

Nessun corridore solitario intanto è stato più inseguito sulla battigia, nessun pensionato nel deserto della spiaggia è stato multato, nessun accompagnatore di cagnolino è stato misurato rispetto alla distanza da casa. In regole, controregole, pararegole, parallassi per non veicolare il contagio, il più smarrito è proprio il maledetto e minuscolo coronavirus: neanche lui riesce più a raccapezzarsi nella babele di orari, dischi rossi, gialli, arancioni, divieti e permessi, regole ed eccezioni, non capendo più quando e dove andare a infettare. Magari si suiciderà per disperazione prima di confrontarsi col vaccino russo, cinese, americano, europeo e alieno. Magari è proprio questa la segretissima strategia del governo.

In attesa di omologare sul Guinness dei primati le infinite variazioni sul tema del Covid-19 delle aperture di giornali e tg in tutte le edizioni e tutti i giorni (c’è la voluta la morte di Maradona per spezzare l’uniformità dell’informazione) e nella palese difficoltà di ricordare il numero progressivo dell’ultimo ma mai ultimo dpcm, viene da chiedersi se è solo la stagionalità ad aver sparigliato i caratteri distintivi del lockdown di marzo rispetto a quello di novembre.

È indubbio che il governo ci abbia messo di suo, e se non ha messo a frutto l’esperienza per cercare di prevenire la seconda ondata ha messo invece a frutto la furbizia di non premere troppo sull’acceleratore dell’impopolarità evitando la paternità di provvedimenti diretti.

Ed ecco tirare fuori dal cilindro, per contrappasso al regionalismo che qualche problema lo creava eccome, la regionalità scaricabarile sui famosi 21 parametri matematici che allargavano o stringevano le misure di contenimento nei tre colori dell’autunno: rosso, arancio e giallo, appunto. Dalla politica delle mani nette di Benedetto Cairoli alla politica del pugno di ferro di Francesco Crispi alla politica delle mani disinfettate di Giuseppe Conte, che intanto le dita non se le è neppure sporcate imponendo il lockdown.

L’Italia non se lo poteva permettere, e questo lo sanno tutti, e con i soldi finti del Monopoli non si risana un’economia già in sofferenza e con i polmoni collassati dal coronavirus. Quanto al fuoco e fiamme dei bazooka di Conte, a distanza di tempo somigliano alle miccette che a San Silvestro si fanno sparare ai bambini perché innocue. Ma non sarà mica colpa delle cattivissime Polonia e Ungheria che si sono messe di traverso con la storia di rinviare al mittente della perfida clausoletta sullo stato di diritto infilata dall’Unione Europea, se non arrivano le valanghe di soldi in parte già spesi e in parte mai neppure erogati nonostante promesse e strapromesse? 

No, questo lockdown non è quello di marzo. I droni non volano più e non ci restituiscono le immagini di città desolate, spoglie di vita come in un futuribile day after. Le automobili si sono riappropriate delle strade e il vuoto urbano non è né d’ordine giuridico né d’ordine sanitario, ma puramente economico. Molti negozi delle categorie merceologiche scampate alle restrizioni hanno calato giù le saracinesche, perché rimanere aperti è antieconomico, e se la gente non va in giro, anche perché fa più freddo, e soprattutto se non ha soldi, chi dovrebbe fare gli acquisti? Evitare di essere strangolati dalle spese ed evitare di essere soffocati dal coronavirus non è un’opzione, ma una scelta obbligata. Sono totalmente spariti dai balconi i lenzuoli con le scritte «Andrà tutto bene» anche perché non è andato niente bene e niente è andato come si sperava andasse. Chissà se qualcuno è andato a ritrovare oroscopi e previsioni degli strapagati indagatori di pianeti e palle di vetro del 2019 per il 2020, per fare un bel falò catartico del ciarpame delle illusioni. Intanto dalle case non arriva nessun coretto, nessuno slancio di solidarietà, neanche un «Bella ciao» fuori stagione o un «Ballo del quaquà» che ci sta sempre bene anche se le cose vanno male.Persino l’esaltazione paranoide per gli eroi in camice bianco si è affievolita, a riprova che questo è sempre il Paese di Masaniello che con la stessa disinvoltura porta agli altari e alla cenere. La grande abbuffata televisiva di virologi, infettivologi, epidemiologi, prima della pandemia sconosciuti persino ai loro pazienti e oggi con vezzi da star, non ha certo contribuito a rafforzare la fiducia nella scienza medica, e gli annunci di nuovi e mirabolanti vaccini fanno salire le borse ma abbassano le difese immunitarie sulla speranza di vederli presto in azione. Già, ma c’è da salvare il Natale… Quale Natale? Quello commerciale in scatola di montaggio svedese o quello familiare con la scatola della tombola? Vedremo cosa si inventeranno gli alchimisti dei numeri, quelli dell’aperitivo in due, della pizza in quattro, del tressette col morto, del pranzo senza la nonna ultrasessantacinquenne e della cena vietata a parenti stretti dal terzo grado in su; quelli dei limiti delle ore 18, anzi 20, no, meglio 22, vediamo se possibile le 23 e magari pure a mezzanotte.

 

 

 

 

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