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La cicerchia, un antico legume da riconoscere come prodotto agroalimentare tipico

Nel Vastese è presente una varietà autoctona

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La cicerchia (Lathyrus sativus) è un legume appartenente alla famiglia delle Fabacee, coltivato per il consumo umano e per l’alimentazione del bestiame in Asia, Africa orientale ed Europa meridionale. In Italia la coltivazione di questa leguminosa è limitata ad alcune aree del centro-sud ed è in costante declino. Negli ultimi anni, però, si è assistito ad un rinnovato interesse verso questo legume, con il recupero di ricette tradizionali proposte anche dai migliori chef italiani. Le cicerchie prodotte in Lazio, Marche, Molise, Puglia ed Umbria hanno ottenuto, dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, il riconoscimento di prodotto agroalimentare tradizionale italiano. L’Abruzzo manca tra le regioni che vantano questa certificazione pur potendosi annoverare, storicamente, tra le aree di maggiore produzione e consumo. Sino ad alcuni decenni fa, infatti, era un legume coltivato in tutto l’Abruzzo. Era un ingrediente importante dell’alimentazione dei contadini, per i quali rappresentava una fonte supplementare di proteine, assieme agli altri legumi. Oggi la coltivazione della cicerchia abruzzese si è drasticamente ridotta. Interessanti colture restano a Castelvecchio e a Carapelle Calvisio, in provincia dell’Aquila, dove viene coltivata una varietà locale, la cicerchia di Carapelle Calvisio, paese in cui si svolge anche, in agosto, la gustosa Sagra della cicerchia. Anche nel vastese, sino ad alcuni decenni fa, veniva ampiamente coltivata, in particolare nelle aree collinari e montane. I legumi, dopo lungo ammollo e attento risciacquo, si cuocevano nella “pignata”, un apposito cuoci-legumi in terracotta che si poneva nel camino accanto alle braci ardenti. Dopo lunga cottura (3-4 ore), la zuppa di cicerchie si condiva con olio e sale o con l’aggiunta di poco pomodoro. Nello stesso modo venivano cotti anche i ceci, i fagioli e le fave. Grazie alla sua particolare rusticità, adattabilità e resistenza, la cicerchia è in grado di propagarsi spontaneamente nello stesso terreno, rinnovandosi di anno in anno attraverso la dispersione dei semi. In alcuni campi incolti dell’Alto Vastese, abbiamo individuato una popolazione di cicerchia presumibilmente autoctona. Da ricerche svolte tra i residenti, è emerso che in quei terreni i contadini hanno coltivato la cicerchia sino ai primi anni ’80. E Dopo oltre 30 anni, la varietà locale si è mantenuta inalterata sino ai giorni nostri! Il Centro Studi per la Montagna Vastese intende raccogliere e studiare questa varietà di cicerchia, per apprezzarne le particolarità organolettiche e conservare i semi per la tutela della biodiversità, a beneficio delle future generazioni. A tal fine, stiamo valutando la possibilità di coltivare le piante, in modo da avere nei prossimi anni la disponibilità di semi da diffondere tra i piccoli agricoltori locali. Auspichiamo, infatti, il recupero e la valorizzazione della nostra varietà, la cicerchia dell’Alto Vastese, perché è un prodotto tipico della nostra terra e della nostra cucina tradizionale. A nostro parere, inoltre, la cicerchia abruzzese deve ricevere il riconoscimento e la certificazione quale prodotto agroalimentare tipico, come bene hanno saputo fare altre regioni. Non da ultimo, la coltivazione della cicerchia può contribuire a dare impulso all’agricoltura biologica del vastese e diventare un importante prodotto da aggiungere alle altre eccellenze alimentari, in quanto capace anch’essa di esprimere e veicolare l’importanza della cultura e delle tradizioni rurali di questo territorio. Note. Come altre leguminose, L. sativus produce semi ad alto contenuto proteico. I suoi semi tuttavia contengono anche, in quantità variabile, una neurotossina. Quando il seme di Lathyrus diviene la fonte esclusiva o principale di nutrimento per lunghi periodi può causare una grave malattia detta latirismo o neurolatirismo. Naturalmente questo vale per un consumo “esclusivo” di questo legume. Ricordiamo che nel Nord Italia, fino ai primi decenni del ’900, una delle malattie più gravi e diffuse era la pellagra , dovuta all’alimentazione basata quasi esclusivamente sulla polenta di mais e nel 1910 si registravano ancora 2000 casi all’anno di questa gravissima malattia.
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