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Con l’unità dei cuori, assicuriamo la testimonianza essenziale del Vangelo

Commento al vangelo

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10.IX.2017 XXIII DOMENICA FRA L’ANNO/A

La Parola ascoltata ci parla dei diversi aspetti della vita comunitaria. Questa prende per la prima volta il nome di Chiesa, l’antico nome dell’assemblea d’Israele, che d’ora in poi sarà la denominazione dei discepoli di Gesù. Il termine “Chiesa” viene dalla parola ebraica qahal (ekklesia, in greco), che significa “convocazione”, “assemblea”. È una parola che dice di Dio che chiama e convoca, e di un popolo radunato, convocato, affratellato dalla stessa chiamata. Come un tempo Israele è stato radunato da Dio, così ora la Chiesa è radunata e convocata nel nome della Trinità. Il Vangelo ascoltato ha ricordato alcune esigenze della vita della Chiesa. La prima è quella della correzione fraterna; la seconda è quella della preghiera comunitaria; infine è ricordata la riconciliazione come esigenza previa alla comunione.

La correzione fraterna è una parola insolita nel nostro linguaggio cristiano, e tuttavia, indica un atteggiamento tipico evangelico: “Se tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni” (Mt 18,15-16). Dobbiamo riconoscere che spesso ci manca il coraggio di agire così. Spesso evitiamo di dire direttamente all’altro la parola schietta per aiutarlo, e piuttosto usiamo, giri di parole, inventando accuse, mormorazioni, processi e allusioni, perché non abbiamo il coraggio di affrontare il fratello.

Oppure lo facciamo con un’accusa pubblica, evitando il confronto a tu per tu come indicato dal Vangelo e che è l’espressione della “carità discreta”. Ci manca, infatti, quella fortezza dell’amore vero e umile che vuole il bene delle persone, e non distruggerle e umiliarle. Nel caso in cui questo tentativo di correzione fraterna non riesca Gesù consiglia di ricorrere alla forza persuasiva che due o più persone hanno sul fratello colpevole.

E se questo non bastasse, bisognerà ricorrere alla comunità. Ma se la persona non ascolta neppure la comunità, allora diventerà inevitabile adottare la misura estrema: quella della scomunica, della separazione dalla comunità. Una misura dal carattere esclusivamente curativo e pedagogico: quella persona è esclusa dalla comunità, perché senta nostalgia della vita fraterna, del calore familiare, della compagnia dei fratelli e perché, per mezzo di questa solitudine insopportabile, capisca la verità, davanti a Dio e a tutta la “Chiesa”, si penta e sia guarita dal perdono della Chiesa. Ma neanche qui bisogna fermarsi, c’è ancora una modalità, secondo quanto scritto da san Benedetto, che di vita comunitaria ne sapeva qualcosa, nella sua Regola: “L’Abate, se ha applicato i lenitivi, l’unguento delle esortazioni, la medicina delle divine Scritture, infine il ferro rovente della scomunica e tuttavia constata che ogni suo intervento non giova più a nulla, allora faccia ricorso alla terapia che è ancora più efficace: la preghiera sua e di tutti i suoi fratelli, perché il Signore, cui tutto è possibile, operi la guarigione del fratello malato” (RB 29,2-5).

Lo scopo della correzione fraterna è l’ideale dell’unione dei cuori: un’unità senza macchia nella verità e nell’amore. A questo fa riferimento la frase “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20). Gesù qui si rifà ad una frase che veniva detta a quel tempo dai rabbini e che suona più o meno così: “Se due o più persone parlano di cose frivole, si tratta di una riunione di ciarlatani; ma se due o più persone si riuniscono per parlare della Torà, degli insegnamenti di Dio, allora la shekinà, la dimora di Dio, è in mezzo a loro”. La vita della Chiesa consiste nell’essere riuniti nel nome di Gesù e nell’essere attenti alla sua parola, ricordando i suoi insegnamenti e la sua vita. L’elemento essenziale della Chiesa è la promessa misteriosa del Cristo risorto in mezzo a coloro che si riuniscono nel suo nome (cfr Mt 28,20). San Giovanni Paolo II aveva detto: “Coloro che vogliono distruggere la Chiesa e credono di averla già estirpata dalle radici perché hanno distrutto i templi e hanno vietato il culto pubblico, si dimenticano che i discepoli di Gesù possono ricostruirla semplicemente restando uniti nel suo nome”.

Così hanno fatto i primi cristiani in mezzo alle persecuzioni e anche molti altri nei decenni di persecuzione in Russia, e continuano ancora a fare in Cina o nel Vietnam. Noi dobbiamo imparare a essere sempre più Chiesa, a fare Chiesa partendo da questa esigenza fondamentale: stare e vivere uniti. Cristo ci assicura la sua presenza nella liturgia Eucaristica, luogo in cui nasce e rinasce la Chiesa. Nell’unità dei cuori si vive il precetto dell’amore. Paolo dice che non dobbiamo avere nessun debito con nessuno, ma ci ricorda che c’è un debito che non possiamo mai saldare: l’amore del prossimo (cfr Rm 13,8). Con i fratelli siamo sempre debitori perché l’amore non è un regalo, ma un debito verso il prossimo. È la risposta all’amore di Dio per noi, ma anche la pienezza della Legge e l’adempimento di ogni precetto. Con la presenza di Cristo nella Chiesa, riceviamo il dono dello Spirito. Con l’unità dei cuori, assicuriamo la testimonianza essenziale del Vangelo. Con l’amore fraterno, circola tra noi la vita divina.


 

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