Non è una tavola ordinaria, quella a cui sono stato assiso questo 19 di marzo, giorno di San Giuseppe a Montorio nei Frentani, in Molise a venti minuti da Termoli. E si chiama proprio “Tavola di San Giuseppe”, proprio perché a Lui dedicata. Ho avuto il privilegio e l’onore di esserne commensale insieme a Gianni e Gianluca (montoriesi d’origine e vastesi d’adozione), su invito del sindaco Nino Ponte. Il quale mi ha spiegato che, prima di me, hanno partecipato a questo rito centenario altri colleghi sociologi, a partire da Renato Cavallaro, i cui studi sui gruppi primari sono noti ed apprezzati anche oltre la comunità dei sociologi accademici.
Partiamo dalla cronaca del pranzo giuseppino. Esso viene allestito ogni anno, preceduto dalla benedizione del parroco alla vigilia, cui fa seguito una veglia notturna. E’ preparato da alcuni giorni prima della ricorrenza. Su invito vi partecipano montoriesi o amici di essi, che si raccolgono attorno alla “Sacra famiglia”, composta da marito, moglie e figlioletto, con affianco due “vecchi” che dovrebbero essere i nonni di Gesù. Tutti devono consumare o quanto meno assaggiare le 13 portate, di cui vedete le foto in galleria. A tavola è “bandita” l’acqua: viene rigorosamente consumato da ciascun commensale e solo in una carrafina personale il vino rosso come “frutto della vita e del lavoro nei campi”. Sono “banditi” pure i telefonini e le discussioni amicali. Si può parlare poco, ma a bassissima voce, perché “il pranzo è sacro”, come pure il luogo reso tale dalla presenza di un altarino con immagini e statue della Sacra famiglia. Le posate non si cambiano e né si ringraziano le cameriere che appartengono rigorosamente alla famiglia ospitante. La quale ha anche il compito, finito il pranzo, di raccogliere i cibi non consumati per donarli a chi ne fa richiesta. Oltre i legumi (ceci, fagioli, cicerchie, fave e lenticchie serviti consecutivamente), i funghi, il baccalà (fritto ed arracanato), la giardiniera (chiamata a cmposta), le arance (tagliate come quelle del capodanno) assume particolarità la la pasta alla mollica (prodotta con 500 chili di pagnotte, la cui prima viene impressa con la mano del padrone di casa). Non si può iniziare a mangiare alcuna portata se non dopo aver ascoltato “Gesù Maria” da parte di colui che personifica San Giuseppe, a cui si risponde all’unisono “Oggi e sempre” (in montoriese ‘ggè sembre). “Gesù Maria”, invece, va pronunciato dal commensale per bere, cosa che può essere fatto solo previa risposta con “Oggi e sempre” da parte dell’intera tavola. Ovviamente all’inizio ed alla fine vengono recitate un padre nostro, un Ave Maria, un Gloria al Padre e cantata una antica litania che si chiude con “Viva San Giuseppe con tutti i suoi figli”
Riflettiamo su questo particolare convivio. Si tratta di un rituale che ha molti significati: religioso, apotropaico, legato alla società agropastorale di sussistenza, solidale, identitario e comunitario che è riuscito a penetrare (e resistere) anche la nostra contemporaneità. E’ religioso per il giorno in cui si svolge, le preghiere e invocazioni che lo condensano; è apotropaico perché si avverte che la disciplina a tavola serve anche ad allontanare influenze maligne; è legato alla società preindustriale come dimostrano i cibi che vengono consumati e che sono tutti topici (del territorio); è solidale perché ciò che avanza non viene buttato ma dati a chi ne fa richiesta o comunque a chi ne ha bisogno; è identitario perché, nato in questa zona del basso Molise, si è poi perfezionato con caratteristiche uniche dove ora si svolge; è comunitario perché rafforza la coesione della comunità locale che si sente viva nella ripetizione del rito ed orgogliosa nella sua presentazione ed ostentazione all’esterno. Chiediamoci perché esso è riuscito a resistere nella società contemporanea, nonostante lo spopolamento (Montorio è passato dai 2760 abitanti del 1901 agli attuali 360) e l’emigrazione verso il Canada (ovviamente dagli oltre dieci tavoli di qualche decennio fa, ora se ne fanno solo due). Pur rilevando che emulative e tradizionali aiutino la sua conservazione, va detto che chi partecipa in fondo ricerca una dimensione più umana in quelle quattro - cinque ore passate senza interconnessione (internet), senza cibi massificati (quelli consumati sono acquistati da contadini e non nei centri commerciali), senza volatilità della famiglia (giacché quella centrale è composta da due genitori e un figlioletto, con due nonni accanto), senza egoismi, ma con attenzione rivolta ai poveri.
Si stava meglio quando si viveva così? No, naturalmente meglio i confort di oggi. Ma siamo andati oltre e il cambiamento climatico lo conferma. Chi sa se prima o poi borghi come Montorio non tornino ad essere abitati, riuscendo ad ospitare coloro che alla frenesia della vita contemporanea preferiscono la tranquillità dei luoghi dove è ancora possibile (sia pure solo a San Giuseppe) mangiare cibi sani e senza guardare tv e telefonini e soprattutto senza bere aranciata e coca cola.