09.VII.2017 XIV DOMENICA FRA L’ANNO/A
L’essere e l’agire di Dio si esprimono in una logica sconcertante per l’uomo, e soprattutto per chi cerca un Dio potente: la logica dell’umiltà e della debolezza. Nella fermamente attesa del Messia, molti speravano di vedere la rivelazione di Dio in un Messia guerriero che imponesse il suo regno con la forza e si appoggiasse ai potenti del suo popolo: i sapienti, guide della comunità, custodi della legge. Invece il profeta Zaccaria annuncia un Messia povero, senza mezzi, senza prestigio o potere: “Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino…” (Zc 9,9).
Questa debolezza di un Messia senza carri da guerra è la vera forza che permette di realizzare l’opera di pace promessa da Dio: “Farà sparire il carro da guerra da Efraim…l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni” (Zc 9,10). Questa misteriosa e paradossale parola profetica, così poco apprezzata dall’uomo sempre proiettato a costruire luoghi di potere e di grandezza, si compirà in Gesù di Nazaret, il Messia che entra in Gerusalemme cavalcando un umile asino (cfr Mt 21,1-10).
Annunciando il regno di Dio, Gesù ha coscienza che la logica dell’umiltà è la via che da sempre Dio ha scelto per realizzare il suo disegno di salvezza. Matteo, nel brano del Vangelo ascoltato, ci rivela proprio questa sconcertante logica. Gesù prega. Si rivolge a suo Padre. La sua preghiera è un’azione di grazie. Egli loda il Padre, non perché tale, ma per ciò che fa. Si stupisce nel vedere la spontaneità dei bambini e la gente senza cultura rispondere alla sua predicazione. Come, d’altra parte, si dispiace di vedere allontanarsi da sé quelli che avevano tutte le capacità di riconoscerlo (Gv 9,40-41). Qui la gioia di Gesù esplode. Nessuno lo mette in discussione, nessuno lo fa passare al vaglio di una critica arrogante.
Vi sono anche quelli che lo accolgono semplicemente, che spontaneamente intuiscono che non si tratta di capire tutto, ma di accettare d’essere amati. È veramente necessario assomigliare a quei bambini che Gesù ama e accarezza (Mc 10,16), e che sono felici di essere amati, perché non sono messi in discussione. È veramente necessario abbassare le armi davanti a Lui, per non incorrere nel rischio di passare di fianco al più bell’incontro, che l’uomo possa fare, senza accorgersene. E per chi lo accoglie così, Gesù riserva le rivelazioni più grandi, quelle che nessuno può conoscere (Mt 11,27) e che trattano del mistero di Dio stesso.
C’è di più. Coloro che pregano ne fanno l’esperienza. Dio, parla loro quando essi si confidano a Lui. Essi comprendono quando non sono sulle difensive. Essi amano veramente quando accettano di essere amati, poiché Dio ci ama sempre per primo (1Gv 4,10). Noi, però, ci difendiamo, non vogliamo essere sensibili, e facciamo fatica a lasciarci amare. Noi ci complichiamo la vita spirituale. Cerchiamo il difficile, dove le cose sono semplici. Il giogo del Signore è leggero, perché Egli lo porta per noi. Gesù si rivolge anche a noi per svelare la sua intimità più profonda.
Non vuole che i suoi discepoli o coloro che lo ascoltano siano solo degli ammiratori della sua grandezza, ma vuole che entrino nella realtà più vera del suo essere. Gesù si presenta rivelando la sua intimità, come l’amico che parla all’amico: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). La mitezza è bontà maturata nel dolore e nel dono gratuito di sé; l’umiltà è verità e libertà, è amore condiscendente che si abbassa fino all’ ‘humus’ della nostra terra e del nostro peccato che si ‘umilia’, affinché nessuno si senta lontano.
Egli è ‘mite e umile di cuore’: in questa espressione, con la quale ci apre i tesori del suo cuore di carne, sentiamo l’attrattiva di qualcuno che vuole abbattere le barriere e spalancare davanti a noi le porte della sua bontà infinita. Nello stesso tempo ci rivolge l’invito ad andare da Lui (“Venite a me” Mt 11,28). È l’esortazione a diventare veri discepoli, in una sequela che è identificazione con la sua persona e con la sua causa (“Prendete il mio giogo” Mt 11,29). La parola ‘giogo’ dal sanscrito ‘yug’, che significa unione, ci parla di comunione nell’obbedienza figliale, di alleanza nell’osservanza dei comandi: leggi e norme del Padre per il nostro bene.
È il ‘giogo’ dell’obbedienza e dell’amore. Infatti, il giogo di Cristo è come la mano amica che si posa sulla nostra spalla per unirci a sé e aiutarci a camminare. È un giogo soave, un carico leggero, quello dei suoi comandi che non sono gravosi. Quanto poi il Signore ci offre, è ristoro nella fatica, libertà dall’oppressione, piena realizzazione della nostra umanità più vera, se da Lui impariamo il nostro essere fino in fondo ‘uomini nuovi’ con la mitezza e l’umiltà che egli ci insegna (“Imparate da me” Mt 11,29).